Il tuo è un silenzio relativo: algoritmi, camere d’eco e bolle di filtraggio.

I silenzi assensi all’interno del gioco social non sono esclusi, anzi tanto più ci si sente esposti ad una platea che poco conosciamo – e che poco sa di noi – tanto più entrano in questo meccanismo sentimenti legati alla timidezza o alla paura di condivisione del proprio pensiero che fanno della teoria della spirale del silenzio di Noelle-Neumann una certezza, quasi, assoluta. Si cade facilmente all’interno della spirale degli osservatori silenti che non commentano, non interagiscono, ma osservano zittiti e piegati in due dalla massa di pensiero. 

Secondo uno studio, condotto da alcuni ricercatori americani della Rutgers University e del Pew, «sui social network il condizionamento sociale delle opinioni è presente e intenso. Se le persone pensano che le loro idee su un tema saranno apprezzate, sono più disposte a scriverne. Ma anche solo il pensiero che qualcuno dei propri follower e amici possa essere in disaccordo può portare molti all’autocensura. E più le persone hanno consapevolezza della diversità di opinioni sui social network che usano, meno saranno inclini a dire la propria». Solo il 42% dei 1800 intervistati ha dichiarato di sentirsi libero di esprimere la propria opinione riguardo una tematica all’interno dei vari social. Nel mondo reale la situazione non cambia. Gli utenti di Facebook e di Instagram – dove vi è maggiore consapevolezza riguardo la varietà delle idee presenti – si esprimono solo la metà delle volte, quelli di Twitter un quarto di volte in meno.   

E’ il peso dell’insostenibile leggerezza dell’essere uno dei risvolti dell’importanza che i social hanno sulle nostre vite. Si passa inosservati se non si è pubblicamente esposti.

Dire la propria anche quando non si è d’accordo con la maggioranza di pensiero non è semplice, piuttosto è meglio tacere; così facendo, però, si rischia di marginalizzare o addirittura far scomparire determinate tematiche che vengono risucchiate all’interno della spirale che porta a galla solo ciò su cui la maggioranza si espone. Gli argomenti alla luce del sole non sono tutti gli argomenti possibili ma solo quelli espressi dalla maggioranza che fa gruppo e poco spazio lascia alle altre considerazioni plausibili. Non si ha un terreno fertile di idee e ragionamenti su cui discutere, si ha un terreno impregnato dalle stesse idee considerate giuste perché forti e maggiormente acclamate. 

Il meccanismo stesso dei social tende a prenderci in giro e metterci in ballo poiché ci fa vedere solo quello che vogliamo vedere e quello su cui volendo potremmo proferir parola, trasformando così il silenzio assoluto dei pochi aventi idee timorose in silenzio relativo. I social amplificano la posizione dominante di alcune tesi, le maggioritarie, che allo stesso tempo sono la somma delle visioni soggettive di ogni singolo utente che si trova d’accordo su alcune questioni.

Se l’opinione come dice la Noelle-Neumann è duale si forma sia attraverso la nostra osservazione diretta delle cose sia mediante l’osservazione mediata dai mezzi di comunicazione, in questo caso i social; ma se all’interno di questi l’io-utente esprime un’opinione, la esprime in maniera personale non oggettiva, quindi ci farciamo e ci facciamo un’opinione su una questione rispetto a ciò che gli altri pensano sia giusto e non rispetto a ciò che effettivamente è. Finendo così per creare consenso popolare e maggioritario sulle più disparate tematiche rispetto all’opinione personale che più riesce a convincerci tra le opinioni soggettive espresse all’interno della piazza virtuale. 

L’osservazione mediata dai mezzi social, in questo caso, non è più oggettiva ma soggettiva poiché formata dalle visioni personali degli individui che fanno parte del contesto social. Io mi faccio un’opinione rispetto a ciò che gli altri pensano sia giusto o rispetto a ciò che effettivamente è? Come faccio a non cadere all’interno della trappola social soprattutto quando tutte le maggioranze di pensiero vengono presentate e rappresentate? 

La Bentivegna parla di reference group ma soprattutto di ciò che potrebbe mettere in discussione la questione riguardo la paura dell’isolamento sociale. Da una parte la concezione stessa di dover comunicare all’interno di un mondo che nel concreto non c’è ma trova spazio solo all’interno di una bolla mediale in cui creiamo il nostro profilo migliore e interagiamo come avatar con la connessione sempre accesa porta distanziamento reale e personale, crisi identitarie e ansie sociali, dall’altra il fatto che le maggiori opinioni di pensiero sono espresse – in un modo o nell’altro – e capeggiate da chi – in un modo o nell’altro – più ci rappresenta in quanto esponente social – non politico – permette che all’interno di questo grande calderone mediale si vengano a creare tanti, ma così tanti, gruppi di appartenenza che potrebbero portare – a detta della Bentivegna – la scomparsa della paura dell’isolamento sociale. I terrapiattisti stanno con i terrapiattisti, i no vax con i no vax e nessuno si sente escluso bensì integrato all’interno di uno dei vari reference group che esistono nei vari social, gruppi Telegram, pagine Instagram e così via. Si parla di splitInternet o della cyberbalkanization ovvero di un fenomeno sociale che si riferisce all’esistenza di gruppi di individui aventi lo stesso credo i quali vanno a formare una community online. 

«Il risultato, che forse potrà sembrare paradossale, è che, di fatto, per effetto della “spirale del silenzio” nell’era dei social media, non esistono più silent zone in cui l’utente rischia di trovarsi solo».

Nel 2009 Cass Sunstein introduce il concetto di camere d’eco o echo chambers: spazi virtuali in cui si ha la possibilità di essere e di esprimere la propria opinione senza remore alcuna, ma chi vi partecipa non è chi contesta o introduce una nuova versione dei fatti ma solo chi funge da rafforzativo d’opinione. Si vengono a creare gli estremi di pensiero, la polarizzazione di idee che stanno o da una parte o dall’altra ma non trovano un luogo, una piazza comune in cui il confronto si pone come legittimo. Questo a causa della fantomatica “sovranità del consumatore” che si deve sentire soddisfatto ad ogni costo e non può non avere una conferma su ciò che pensa sia reale. Le camere d’eco, secondo lo studioso, infatti, sono come delle vere e proprie bolle a zero serendipity: ovvero dove niente di nuovo può succedere all’interno di esse, dove il concetto di imprevedibilità – che sta alla base di ogni nuova scoperta – viene del tutto cancellato, abolito, distrutto. E’ un pò come ascoltare sempre la stessa canzone. Nessuna nota nuova, ma sempre la stessa conosciutissima e risentitissima melodia. 

Eli Pariser diceva «ci sono sempre meno possibilità di fare incontri illuminanti dal quale imparare qualcosa». Ed ha ragione. In un mondo in cui è tutto fast, fresh e catchy, la sedentarietà degli argomenti pare l’unico minimo comune denominatore di ogni algoritmo sociale. Le camere d’eco trovano perfetto collocamento all’interno dei social, infatti, sembrano proprio fatte e costruite appositamente per esso. Si prenda Facebook come esempio, avente un algoritmo che ci propina argomenti di nostro interesse a secondo del numero di click che mettiamo in determinati post (vediamo sempre e solo quello che ci interessa o di cui siamo alla ricerca) e prendiamo delle perfette camere che possano fare da eco alle nostre consolidate e confermate opinioni, ed ecco che ci appare magicamente il nostro posto preferito in cui possiamo essere la nostra versione migliore – o peggiore – di noi stessi. Il nostro posto preferito però è una bolla invisibile e trasparente in cui avviene il misfatto di consolidazione d’opinione e interesse. 

Eli Pariser la chiama bolla di filtraggio o filter bubble, la quale agisce in modo subdolo presentandoci attraverso specifici filtri ciò che più ci aggrada ed estrapolando in maniera silenziosa le informazioni che più loro desiderano. Ognuno di noi sta dentro una bolla di cui quasi mai è a conoscenza. All’interno di essa vigono tre dinamiche: all’interno della bolla siamo soli; non c’è ne accorgiamo perché è invisibile e gli algoritmi sono poco trasparenti; infine, non scegliamo noi di farne parte. 

Quando guardiamo un notiziario o leggiamo un giornale, a secondo dell’autore e del tenore dei fatti, sappiamo quale filtri utilizzare per leggere “meglio” l’informazione; nel caso della bolla sono loro stessi a presentarsi da noi quando le barriere di lettura sociale non sono nemmeno attivate, restando la maggior parte delle volte vittime della loro volontà. 

Il filter bubble produce la più sbagliata delle convinzioni, ovvero, che i nostri sono gli unici interessi che esistono, ed essendo figli di una società avente una piccola componente narcisistica, questo non può che inebriarci e farci cadere in una tentazione tutta social. Parliamoci chiaro, se qualcuno si interessa e pone i nostri pensieri come unici e legittimi non possiamo andare contro noi stessi, non possiamo lottare contro noi stessi. Possiamo solo esserne lusingati. Facciamo una reference group d’opinione con gli altri ma non facciamo mai una comunità di pensiero. Comunità di pensiero che non significa esaltazione dei propri bisogni spasmodici ma puro confronto con l’opposto, con la controparte ed accettazione dell’alterità. Ci neghiamo di quell’illuminazione folgorante che potrebbe darci una nuova visione del mondo, restando fermi come dei censori ecclesiastici, negandoci l’apertura al nuovo, ricalcando gli stereotipi, e stereotipando noi stessi. All’interno delle piazze social l’amplificazione del confirmation bias è quasi ridondante. 

Non tutti sono ovviamente allergici al confronto o ad una visione contrastante e diversa dalla propria. Tutta sta nel come si è propensi all’interno del circolo e ciclo comunicativo e di conseguenza l’algoritmo orienta in maniera differente. Quest’ultimo non funziona a secondo del contenuto del post, ma a secondo delle reazioni ed interazioni che si hanno con essi.  E’ il defollow ad incriminare e a far cambiare rotta, non il contenuto. Se si è partecipi all’interno di una discussione discordante con le proprie idee comunque questo comparirà nella home. Siamo noi a personalizzare le nostre fonti che più o meno possono apparirci appetibili o comunque interessanti per certi versi. 

L’esperienza digitale è fatta e creata apposta per l’utente, l’algoritmo asseconda quest’ultimo a secondo dei suoi orientamenti e dei suoi apprezzamenti. Sta a lui scegliere se seguire a piè pari le sue convinzioni senza distogliere la sua rotta di pensiero o se mettere e di conseguenza mettersi in dubbio scegliendo di interagire con qualcosa di contrastante. 

Sta sempre a noi crearci il nostro newsfeed di opinione.

 


 

Riferimenti bibliografici:

  1. Keith Hampton [et al.], Social Media and the “Spiral of Silence”, Pew Research Center, 26 agosto 2014.

  2. <https://www.ilpost.it/2014/08/26/opinioni-social-network/>.

  3. Sara Bentivegna, Giovanni Boccia Artieri, Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale, Bari, Laterza, 2019.

  4. Lanfranco Norcini Pala, Social… mente. Come si formano le idee e l’opinione pubblica tre rete e social, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2020.

  5. Cass R. Sunstein, Republic.com 2.0, Princeton, Princeton University Press, 2009.