CS – Laboratorio di Comunicazione per la Salute

Il laboratorio ha lo scopo di studiare e sviluppare ma migliore comunicazione nell’ambito della salute e della sanità.
Opera in collaborazione con l’Osservatorio Sanità.

 

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Comunicare la salute mentale

  • “Dementi”, “pazzi”, “ritardato”, “lobotomizzato”. Le parole dello stigma che si dovrebbero evitare – Tiziana Metitieri – 2020 (linkpermalink)
  • Come i media dovrebbero riportare le notizie sulla salute mentale – Tiziana Metitieri – 2021 (linkpermalink)

Immagini dai manicomi – Il Piccolo – Presentazione libro 2023 – Testo di Andrea Giuseppe Cerra

Immagini dai manicomi: così Basaglia svelò all’Italia la segregazione dei matti

L’editore Mimesis pubblica “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata” una disamina sulla malattia mentale con le foto storiche del 1969 di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin
«Il povero, il diseredato che, proprio in quanto privo di forza contrattuale da opporre a queste violenze, cade definitivamente in potere dell’istituto deputato a controllarlo», le parole di Franco Basaglia e Franca Ongaro descrivono in maniera cruda ma profondamente efficace la condizione di un paziente all’interno dell’ospedale psichiatrico.
Un passaggio cruciale del secondo Novecento italiano è stato rappresentato dalla rivoluzione culturale condotta da Basaglia nel riformare il sistema manicomiale italiano.
Il volume “Morire di classe”, pubblicato nel 1969 con fotografie realizzate tra aprile e ottobre del 1968 negli Ospedali Psichiatrici Provinciali di Firenze, Gorizia e Parma e sequenze, create da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, fu strumento essenziale per far conoscere e comprendere a un pubblico più vasto, al di là degli addetti ai lavori, attraverso l’analisi scritta quanto visuale, i punti fondamentali del pensiero basagliano. Le speranze riposte in quella istanza di cambiamento hanno trovato risposta nel corso dei decenni? L’impresa è riuscita? Sono scomparse, si sono rarefatte, immagini di quel tipo, oppure si sono trasferite sul territorio, fuori le mura, dentro altre mura invisibili, fatte di molecole ad alto dosaggio e di fasce pendenti dai lettini?

Il libro pubblicato da Mimesis “La classe è morta. Storia di un’evidenza negata” (a cura di Pietro Barbetta, pp. 144, euro 15), a partire dalle storiche immagini di Morire di classe, prova a riattualizzare il tema dell’universo concentrazionario manicomiale, rinchiuso in ospedale, nella forma di trattamento sanitario obbligatorio, e nei reparti di osservazione psichiatrica nelle carceri.

Morire di classe fu un’opera radicale all’epoca anche sotto altri aspetti, come lo stile e il contenuto. Il libro non aveva numeri di pagina e le fotografie non erano attribuite a un autore o fotografo in particolare. «Si decise di adottare una prima formula di assenza di diritto d’autore, rifiutando una prospettiva autoriale e “artistica” a favore di una visione militante e politica dell’uso della fotografia. Fu un prodotto controculturale sotto ogni punto di vista» scrive John Foot, storico dell’Università di Bristol, nella prefazione.

Venne dato grande credito agli effetti che “Morire di classe” ebbe sul pubblico italiano e sulle sue conseguenze politiche, come accadde per il documentario “I giardini di Abele” di Sergio Zavoli girato nell’Ospedale psichiatrico di Gorizia dove, nel novembre 1962, l’équipe psichiatrica diretta da Franco Basaglia aveva trasformato un reparto dell’ospedale in “comunità terapeutica”.

Le immagini ritraggono, per la maggior parte, donne. Manicomializzate, dietro le sbarre, come nell’immagine fotografica utilizzata nella copertina del volume. «Donne e uomini che indossano la camicia di forza, esausti – come nelle opere teatrali di Samuel Beckett – seduti, sdraiati per terra, abbruttiti dalla condizione concentrazionaria, dalla condizione umana» scrive il docente di Psicologia dinamica dell’Università di Bergamo Pietro Barbetta.

“Morire di classe” mostra i volti di persone, che vestono una divisa da carcerati, una blusa nera con colletto bianco, come alunni di una classe elementare, una blusa che copre corpi obesi, ridotti all’anoressia, emaciati, che sembrano trascinarsi lentamente, sdraiati per terra, seduti con le mani sulla testa. Viseità incredule. Le espressioni degli attori somigliano a quelle delle fotografie di “Morire di classe”: estraniate, attonite, incredule. Gli psichiatri classici usano, in questi casi, il termine “stupor”.

Anche qui si tratta di morte, però non si tratta di morire, si tratta di essere «già morte».